La nuova serie PAC Project Room inaugura con un focus sull’artista curda Zehra Doğan, giornalista, artista visiva e attivista che ha portato nuova attenzione all’arte nata in carcere e basata su ascolto dell'altra, pratica femminista, condivisione, utilizzo di materiale estemporaneo e istantaneità dello sguardo.
IL TEMPO DELLE FARFALLE. Dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal, a cura di Elettra Stamboulis e realizzato in co-produzione con la Fondazione Brescia Musei, è iniziato il 25 novembre con la pubblicazione sul sito del PAC di una performance dell’artista in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne e si completa con l’esposizione di una selezione di opere realizzate dall'artista in carcere e una nuova performance, pensata per il PAC.
Il titolo del progetto al PAC, IL TEMPO DELLE FARFALLE. Dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal è un omaggio a Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal, le tre sorelle che combatterono la dittatura (1930-1961) del dominicano Rafael Leónidas Trujillo con il nome di battaglia Las Mariposas (Le farfalle) e per la quale persero la vita.
Zehra Doğan (Diyarbakır, 1989) è un'artista e giornalista curda diplomata in Arte e Design all'Università Dicle. Il 23 febbraio 2017, a seguito della pubblicazione di un disegno su Twitter durante l'attacco dell'esercito turco a Nusaybin, viene condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione. Detenuta prima nella prigione femminile di Diyarbakir, poi in quella di massima sicurezza di Tarso, riesce a creare insieme ad altre detenute una redazione giornalistica interna al carcere e a realizzare opere utilizzando gli oggetti che ha a disposizione. I suoi lavori raggiungono l’estero in modo rocambolesco, attraverso la rete degli attivisti e l'aiuto della famiglia. Liberata il 24 febbraio 2019, si trasferisce a Londra dove espone un’installazione alla Tate. A novembre Fondazione Brescia Musei inaugura la sua prima personale, Avremo anche giorni migliori. Nel 2015 vince il premio Metin Göktepe Journalism Awards per il suo reportage sulle donne Yazide. Dopo la scarcerazione riceve numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Carol Rama e il premio Ipazia all'eccellenza femminile (2020), l’Index on Censorship Freedom of Expression (2019), l'Exceptional Courage in Journalism Award (2019), lo Spring of Press Freedom (2018) e il Freethinker Prize (2017).
Il PAC inaugura la nuova serie PAC Project Room con un focus sull’artista curda Zehra Doğan. Il progetto, a cura di Elettra Stamboulis e co-prodotto da Fondazione Brescia Musei, si struttura come un trittico, iniziato il 25 novembre 2020 con la pubblicazione sul sito del PAC di una performance dell’artista dedicata a Hevrin Khalaf, attivista femminista e segretaria generale del Partito del Futuro siriano, uccisa il 12 ottobre 2019. Dopo la pubblicazione del video, avvenuta in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il progetto si completa con l’esposizione di una selezione di opere dell’artista realizzate in carcere.
A soli 30 anni, Zehra Doğan ha già vissuto varie vite: giornalista, fondatrice insieme ad altre della prima agenzia di stampa interamente femminile, artista visiva, attivista, ha portato nuova attenzione all’arte che nasce dietro le sbarre, grazie anche a un processo artistico che mette insieme ascolto dell’altra, pratica femminista, condivisione, utilizzo di materiale estemporaneo e istantaneità dello sguardo.
Dal momento che i pigmenti colorati non erano disponibili nelle carceri femminili turche, Doğan creava i suoi dipinti con ciò che aveva a portata di mano come avanzi alimentari, sangue mestruale (anche non suo) e fondi di caffè. Anche i supporti non erano ordinari: il telo da bagno carcerario, la carta stagnola delle sigarette, il riuso delle poche lettere autorizzate; tutto diventa materiale con cui resistere attraverso l’arte.
Il corpo femminile, ricorrente, metamorfico, perturbante, costituisce uno dei totem principali delle sue composizioni, caratterizzate da occhi molto aperti che chiedono a noi spettatori di guardare veramente, di aprire lo sguardo oltre le semplificazioni e oltre la continua smemoratezza che ci affligge. Un tema, quello degli occhi spalancati, che proviene sicuramente dall’iconografia bizantina, che acquista però un nuovo valore nel processo e nella pratica di Doğan. Se da un lato ci sono elementi ricorrenti che provengono da un sostrato culturale che parla una lingua non gradita al governo di Ankara, dall’altro le modalità di creazione dell’artista provengono da una riflessione che trae la propria forza dal contemporaneo.
Doğan è anche una sciamana in grado di interpretare sogni: il materiale onirico è presente tanto quanto quello politico. Insieme a opere dedicate alla distruzione di Afrin e al conseguente esodo della popolazione che, attraversando il confine della città, è diventata rifugiata, appaiono lavori che sono la traduzione in immagini dei sogni delle detenute.
L’immaginario dell’artista esule in Europa è un baule stipato, in cui l’esperienza del dolore ha dato un’unica arma, il pennello, ma allo stesso tempo anche un’irresistibile determinazione alla felicità. “Per me la vita stessa è arte”, così risponde quando le si chiede di dare una chiave di lettura del suo lavoro.
In mostra nella Project Room, una selezione di venti opere realizzate nelle carceri: la serie Giorno di sangue, dal carcere di Diyarbakir, realizzata con il sangue mestruale, mette in relazione la simbologia del sangue come guerra degli uomini e come esperienza mensile femminile, ancora carica di tabù. Legate al modus operandi dell’art & press, le opere Senza titolo e Autoritratto dinamico, entrambe sulla carta del quotidiano Demokrasi, sono presenti insieme a Un sogno, che fa parte della serie legata all’attività onirica: quando non hai nulla da disegnare e da rappresentare perché il tuo mondo è chiuso tra quattro mura, i sogni diventano un campo importante d’ispirazione.
Zehra Doğan (Diyarbakır, 1989) è un’artista e giornalista curda diplomata in Arte e Design all’Università Dicle. Il 23 febbraio 2017, a seguito della pubblicazione di un disegno su Twitter durante l’attacco dell’esercito turco a Nusaybin, viene condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione. Detenuta prima nella prigione femminile di Diyarbakir, poi in quella di massima sicurezza di Tarso, riesce a creare insieme ad altre detenute una redazione giornalistica interna al carcere e a realizzare opere utilizzando gli oggetti che ha a disposizione. A nulla valgono gli appelli dell’artista cinese Ai Weiwei, del PEN club internazionale e di Amnesty International per la liberazione dell’artista come prigioniera d’opinione ingiustamente incarcerata. Anche Banksy le dedica un immenso murales, il Bowery Wall, a New York. I suoi lavori raggiungono l’estero in modo rocambolesco, attraverso la rete degli attivisti e l’aiuto della famiglia. Liberata il 24 febbraio 2019, si trasferisce a Londra dove espone un’installazione alla Tate. A novembre Fondazione Brescia Musei inaugura la sua prima personale, Avremo anche giorni migliori. Nel 2015 vince il premio Metin Göktepe Journalism Awards per il suo reportage sulle donne Yazide. Dopo la scarcerazione riceve numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Carol Rama e il premio Ipazia all’eccellenza femminile (2020), l’Index on Censorship Freedom of Expression (2019), l’Exceptional Courage in Journalism Award (2019), lo Spring of Press Freedom (2018) e il Freethinker Prize (2017). A settembre 2020 realizza una serie di lavori per la Prometeo Gallery di Milano e partecipa alla Biennale di Berlino e a tavole rotonde internazionali come il Peace Forum a Basilea. Artreview la inserisce tra i 100 artisti contemporanei più influenti. Vive da esule in Europa, al momento a Berlino dove lavora a un progetto per il Gogol Theatre, dopo un periodo a Londra.